Trump semina il panico da recessione – Giornate nere a Wall Street: la situazione

17/03/2025

Trump semina il panico da recessione – Giornate nere a Wall Street

L’euforia dei mercati finanziari a Wall Street sembra essersi già esaurita. Il mandato di Trump ha inizialmente acceso speranze tra gli investitori, ma la sua politica commerciale aggressiva ha rapidamente mutato il clima, portando le borse americane a una fase di forte incertezza. Dopo un breve periodo di entusiasmo post-elettorale, il comportamento imprevedibile del presidente ha innescato una fuga verso asset sicuri, come l’oro, che ha superato momentaneamente i 3.000 dollari l’oncia. Ora, più che ai dati concreti, gli investitori guardano agli indicatori di fiducia, sempre più segnati dal timore di una crisi economica.

L’ultima settimana ha visto un aumento della volatilità dei mercati a causa di nuove mosse protezionistiche. Trump ha imposto un dazio del 50% sull’acciaio e sull’alluminio importati dal Canada, provocando una dura reazione da parte del governo dell’Ontario, che ha minacciato misure punitive sulle esportazioni energetiche verso gli Stati Uniti. Inoltre, la risposta dell’amministrazione americana alle sanzioni europee è stata altrettanto dura, con la minaccia di un’imposta del 200% sugli alcolici provenienti dall’Europa. Gli analisti temono che questa guerra commerciale possa diventare ancora più aspra rispetto al primo mandato di Trump, con conseguenze gravi sull’economia globale.

“Ecco perché i timori di una recessione negli Stati Uniti lentamente si stanno facendo largo . scrive l’esperto Claudio Paudice su Huffington Post – “Al momento, va detto, l’economia statunitense è in buona salute: nei primi mesi del 2025 si è registrato un moderato ma generalizzato aumento dell’attività economica. La spesa dei consumatori è cresciuta e l’occupazione è salita marginalmente, soprattutto nei servizi e nell’edilizia. Si sono registrati inoltre incrementi moderati sia dei prezzi di vendita sia dei costi degli input produttivi. L’inflazione è tutto sommato tenuta a bada: a febbraio l’andamento è andato meglio delle aspettative, con i prezzi al consumo saliti del 2,8%, sotto il 2,9% atteso dagli analisti e meno del 3% di gennaio. Su base mensile l’aumento è stato dello 0,2%, inferiore al +0,3% su cui scommetteva il mercato. L’indice core – quello al netto di energia e alimentari – ha segnato un rialzo mensile dello 0,2% e su base annua del 3,1%. Gli ultimi dati sull’inflazione sono “un’ottima notizia”, ha detto Trump. I dati sono migliori delle attese degli analisti, ma l’indice dei prezzi rimane ostinato e non è ancora un problema alle spalle. Anzi, proprio l’andamento persistente rischia di frenare la mano della Federal Reserve nel taglio dei tassi, preparando così il terreno a un ennesimo fronte per il tycoon, stavolta con il presidente della Fed Jerome Powell che già in passato è stato bersagliato di critiche dalla nuova, invadente, amministrazione americana.

Una Federal Reseve che sicuramente si muoverà con estrema cautela prima di prendere decisioni, in attesa di capire quali saranno le ricadute sull’economia americana delle politiche di Trump. Allo stato attuale sono previsti solo due tagli dei tassi in tutto il 2025. L’introduzione di nuovi dazi vessatori sulle importazioni e le ritorsioni che si abbatteranno sulle imprese americane rischiano di far lievitare nuovamente i prezzi per i consumatori americani. E Powell si prenderà tutto il tempo a sua disposizione prima di allentare la sua politica monetaria. L’applicazione di tariffe su ingenti quantitativi di merci importate rischia infatti di mandare in fumo molto del lavoro fatto dalla Fed per addomesticare la corsa dei prezzi.

Lo stesso Trump non ha escluso che l’economia americana possa andare in recessione nel 2025: a domanda precisa, durante un’intervista a Fox News, ha risposto: “Odio predire cose del genere. C’è un periodo di transizione perché quello che stiamo facendo è molto grande. Stiamo riportando ricchezza in America. È una cosa grande. E ci sono sempre periodi in cui… ci vuole un po’ di tempo”. Parole che lunedì hanno fatto registrare un lunedì nero sulle borse mondiali, di pari passo con l’inasprirsi della guerra commerciale prima al Canada e poi all’Europa.

Gli annunci di Trump di rendere gli Usa “great again” infatti si stanno scontrando contro le previsioni che gli stessi annunci stanno influenzando. Al di là dei dati, sono gli indicatori e le attese a muovere i mercati in questa fase. La scorsa settimana gli analisti di Goldman Sachs hanno tagliato le previsioni di crescita degli Stati Uniti all’1,7% e hanno alzato le previsioni di aumento dei prezzi, mentre il capo economista di J.P. Morgan ha dichiarato ai giornalisti che la probabilità che l’economia statunitense scivoli in una recessione quest’anno è del 40%.

Il sentiment dei consumatori rilevato dall’Università del Michigan per gli Stati Uniti è crollato a 57,9 a marzo 2025, il più basso da novembre 2022, da 64,7 a febbraio e ben al di sotto delle previsioni di 63,1. Il sentiment è diminuito per il terzo mese consecutivo, con molti consumatori che citano l’elevato livello di incertezza attorno alla politica e ad altri fattori economici. Mentre le attuali condizioni economiche sono rimaste pressoché invariate (53,5 contro 65,7), le aspettative per il futuro sono peggiorate (54,2 contro 64) in molteplici aspetti dell’economia, tra cui finanze personali, mercati del lavoro, inflazione, condizioni aziendali e mercati azionari.

Dopo l’ammissione di Trump su una possibile recessione, Wall Street si è regolata di conseguenza: lunedì scorso il Dow Jones ha lasciato sul terreno il 2,08%, mentre il Nasdaq ha perso il 4% bruciando mille miliardi di dollari. Il petrolio del Texas, nasando aria di crisi, ha perso l’1,51% a 66,03 dollari al barile, erodendo così i profitti dei produttori ed esportatori di petrolio americani, in particolare quelli di shale oil, derivante da procedimenti estrattivi più costosi. Wall Street ha chiuso la peggiore seduta dal 2022.

Basti pensare che se attuati, solo i dazi del 25% su Canada e Messico, potrebbero far aumentare i prezzi dello 0,5% e il Pil potrebbe ridursi dello 0,25%. Ma ci sono la Cina e l’Unione Europea pronti a rispondere alle tariffe americane, e il loro impatto rischia di farsi sentire sui consumatori americani. Con i dazi su acciaio e alluminio, secondo le simulazioni del Kiel Institute for the World Economy, i prezzi negli Usa saliranno di circa lo 0,41%, alimentando l’inflazione, mentre le esportazioni diminuiranno dell’1,37%. L’acciaio e l’alluminio importati diventeranno significativamente più costosi, aumentando i costi di produzione in molte industrie americane.

La storia insegna agli americani che il protezionismo non paga. Dall’atto Smoot-Hawley adottato dal presidente Hoover nel 1930, che nel nobile intento di proteggere le produzioni americane finì per peggiorare la Grande Depressione, alle tariffe “a tutto spiano” della Trumpnomics, gli effetti provocati dai dazi sono sempre gli stessi: ritorsioni commerciali, aumento dei costi per aziende e consumatori, e mercati in modalità fuga dal rischio.

L’indice S&P 500 di Wall Street delinea il quadro: altro giovedì negativo, l’indice più rappresentativo della borsa americana ha chiuso in correzione, cioè registrato una perdita di oltre il 10% rispetto al più recente massimo raggiunto. Anche il Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici, era già andato in correzione nei giorni scorsi. Trend non così comuni che quando scattano alimentano le stesse paure dalle quali sono scaturiti. Solo pochi mesi fa, dopo il successo elettorale di novembre, Trump tirava la volata alle borse. Ora a Wall Street è tutta un’altra aria, i lupi si sono fatti agnelli, i tori sono diventati orsi. La festa è già finita”.

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