
Economia – L’Italia prenda esempio dal Giappone “I Nipponici si permettono un debito al 250% del PIL senza andare a gambe all’aria, perché l’Italia non può fare altrettanto?”. L’analisi

L’Italia prenda esempio dal Giappone “I Nipponici si permettono un debito al 250% del PIL senza andare a gambe all’aria, perché l’Italia non può fare altrettanto?”
L’Italia si trova ancora una volta in una fase di grande incertezza, incapace di prendere decisioni strutturate e coraggiose sul proprio futuro economico e politico. Mentre la discussione pubblica si consuma in talk show e nei tecnicismi delle slide, il Paese reale – fatto di imprese, lavoratori e famiglie – continua a faticare per tenere il passo. Eppure, si pone un interrogativo cruciale: perché l’Italia non riesce a seguire l’esempio del Giappone, un Paese che gestisce un debito pubblico pari al 250% del PIL senza crisi apparenti?
La risposta va cercata nel modello finanziario giapponese, molto diverso da quello italiano. In Giappone, la gran parte del debito è detenuta da attori nazionali: cittadini, fondi pensione, banche locali. In sostanza, è un sistema chiuso e coordinato, dove la Banca centrale stampa moneta e le istituzioni interne acquistano i titoli, mentre i risparmiatori mostrano piena fiducia. Questo meccanismo ha consentito al Paese asiatico di mantenere tassi d’interesse bassissimi e di evitare le speculazioni internazionali.
Questa l’analisi di Marco Pugliese, giornalista, docente di matematica e analista economico: “I giapponesi non hanno paura del loro debito. E fanno bene. Perché lo possiedono loro. Il 90% è in mano a cittadini, fondi pensione, banche locali. Hanno creato un sistema che funziona come una famiglia ben organizzata: la Banca del Giappone stampa, le istituzioni comprano, e i risparmiatori si fidano. Risultato? Tassi d’interesse sotto lo zero per decenni. E nessun attacco speculativo.
Noi, invece, abbiamo trasformato il debito in una religione del senso di colpa. Lo spread come punizione divina. Nel 2024, oltre il 30% del nostro debito (ancora poco per fortuna) è in mano a fondi esteri, speculatori, hedge fund che vanno a nozze con ogni inciampo politico romano. Il problema non è la cifra, ma chi ne tiene il coltello dalla parte del manico.
In Giappone si investe: i piani quinquennali industriali esistono ancora, lo Stato individua i settori chiave e li difende come un samurai protegge il suo daimyo.
Da noi, invece, Termini Imerese è diventata un cimitero di capannoni. Il “piano industriale nazionale”? Non pervenuto”.
“Il Giappone – prosegue Pugliese – “ha imparato una lezione chiara: non si campa di solo export o amicizie a ore. Da anni si muove con diplomazia a geometria variabile. È alleato degli Stati Uniti, ma firma intese con India, Vietnam, Australia, UE. Ha capito che dipendere da un solo partner – che sia Washington o Pechino – è un rischio sistemico. E lo ha fatto senza far rumore, come da tradizione.
L’Italia, invece, è sempre col cappello in mano. Prima la Cina, poi l’Atlantico, poi il MES, poi l’ennesima retromarcia. Zero coerenza strategica. Nessuna capacità di dire: “Siamo italiani, non vassalli”.
Una Banca d’Italia più autonoma, che compra titoli del Tesoro,, come fa Tokyo. Una politica industriale che individua 4-5 settori strategici e li finanzia con visione: IA, energia, cyberdifesa, manifattura avanzata. Un piano di rilocalizzazione intelligente che riporti la produzione in Italia con incentivi seri e controlli veri. E no, non falliremmo. Perché abbiamo ancora una base industriale che, se curata, può tornare a correre. Perché i risparmiatori italiani detengono oltre 9.000 miliardi di ricchezza finanziaria e d’immobili. Siamo solo un Paese smarrito, senza il coraggio di scegliere. “Gli italiani hanno sempre preferito una bella bugia a una scomoda verità”, scriveva Bocca. Serve smetterla di galleggiare in attesa che qualcuno venga a salvarci”.