
Torino – Il “riarmo” porta nuova ricerca. Il Politecnico è al lavoro: “Ma il piano è molto più ampio”. Ecco le novità

Attualmente, oltre un contratto di ricerca su dieci stipulato al Politecnico di Torino riguarda direttamente o indirettamente il settore della difesa. Questa percentuale raggiunge il 15% se si includono anche i progetti in collaborazione con partner nazionali e internazionali. Queste attività portano all’ateneo torinese un contributo economico superiore ai 7 milioni di euro all’anno, escludendo eventuali fondi straordinari legati al PNRR. Si tratta di un impegno che affonda le sue radici in un lavoro portato avanti nel tempo, e che posiziona il Politecnico come un attore chiave nel panorama della ricerca militare italiana, al di là delle polemiche di natura etica ed economica che spesso accompagnano questi temi.
Negli ultimi tempi, il tema ha acceso un dibattito intenso, anche all’interno dello stesso Politecnico. Si immagina infatti che in futuro gli ingegneri formati dall’ateneo possano avere un ruolo rilevante nel rafforzamento degli investimenti europei nel settore difensivo. Un impulso importante in questa direzione è arrivato dal piano ReArm Europe, presentato il 19 marzo dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, che punta a destinare circa 800 miliardi di euro al potenziamento della difesa europea per fronteggiare le minacce globali e le incertezze geopolitiche. Il piano mira a rafforzare tanto l’industria bellica quanto le capacità militari dell’Unione, e l’Italia, nonostante oggi spenda poco nel settore (solo l’1,57% del PIL), è tra i Paesi che vi prenderanno parte. Questo significa anche maggiori investimenti in ricerca e sviluppo, e quindi potenziali risorse per le università, nonostante le proteste di studenti e accademici contrari al coinvolgimento nel settore bellico.
“È lo stesso rettore Stefano Corgnati che lo conferma, a pochi giorni dall’aver spento la prima
candelina alla guida dell’ateneo – scrive il quotidiano Repubblica – ” Per quanto sia precoce immaginare che ci sia già un team dedicato in ateneo in attesa che il piano si trasformi in bandi specifici. da intercettare, di sicuro, abbiamo lavorato
come da tradizione del Poli in chiave strategica e abbiamo creato un’infrastruttura regolamentatoria per essere pronti nel caso ci fossero questi percorsi da intraprendere».
“Così – si legge ancora su Repubblica – ” mentre il piano ancora spacca la politica, il Politecnicosi rifà alla Costituzione che definisce la difesa «sacro dovere del cittadino» delineando un percorso regolamentato, con clausole contrattuali «per orientarsi tra le oltre cinquanta sfumature di grigio che il tema della difesa può avere», precisa il rettore. Gli fa
eco Francesco Laio, direttore del dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture (DIATI): «Noi siamo ingegneri e architetti, non siamo scienziati politici e facciamo innovazione tecnologica tramitela ricerca».
I contratti e i progetti già attivi in ateneo in ambito difesa si concentrano su ricerca di base e ricerca applicata. Nascono da bandi lanciati per lo più dal Ministero italiano o da enti europei, per cui possono compartecipare le
aziende. Così il Politecnico negli anni ha collaborato con la Nato e le Nazioni Unite ma anche con
aziende come Leonardo e Thales Alenia, finite spesso al centro delle proteste da parte di studenti universitari, ma anche ricercatori e docenti perché additate come «industrie della guerra».
Dal Politecnico ribadiscono che la distinzione tra usi civili e militari della tecnologia non è sempre chiara: molte delle ricerche possono avere ricadute in entrambi gli ambiti. Questo vale per settori come aerospazio, telecomunicazioni, intelligenza artificiale, gestione dei dati, mobilità, logistica, energia, e monitoraggio ambientale.
Un esempio concreto lo fornisce ancora il rettore Corgnati: le osservazioni satellitari possono essere utilizzate tanto per la gestione delle risorse idriche quanto per controlli strategici legati alla sicurezza. La matematica, a sua volta, gioca un ruolo chiave. Il professor Danilo Bazzanella, esperto di crittografia, sottolinea come il suo lavoro sia volto a garantire la sicurezza delle comunicazioni in una società digitale sempre più esposta ai rischi, anche derivanti dai futuri computer quantistici. Il suo progetto europeo mira proprio a sviluppare soluzioni crittografiche “post-quantum”. Nonostante la possibile applicazione militare, Bazzanella chiarisce che il suo lavoro è rivolto alla sicurezza globale e viene sempre reso pubblico, nel rispetto della missione culturale dell’università.
La questione cruciale riguarda dove andranno a finire i fondi: se nella produzione bellica, dove gli atenei hanno un ruolo più marginale, oppure nella ricerca, dove invece le università giocano un ruolo di primo piano. È importante distinguere i due ambiti, come fa notare il professor Carlo Rosso del Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale, esperto di progetti “dual use” (cioè a doppio uso, civile e militare). Rosso spiega che nelle università si lavora su tecnologie ancora in fase embrionale, con un livello di maturità tecnologica (TRL) generalmente basso, attorno al livello 4 su una scala che arriva a 10 (dove 10 indica prontezza per la produzione industriale). Questo significa che tra la ricerca accademica e l’utilizzo bellico c’è ancora molta distanza.
Tuttavia, conclude Rosso, vista l’evoluzione del contesto politico europeo e globale, è plausibile che in futuro l’università venga coinvolta in modo crescente nello sviluppo di tecnologie legate alla sicurezza e alla difesa, nel rispetto del nuovo quadro normativo che l’ateneo si è dato.