15/02/2023

Politica

Astensionismo al 60% – Ecco perché continua a crescere il partito del Non voto

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Astensionismo al 60% – Ecco perché continua a crescere il partito del Non voto

Il partito dell’astensionismo ha toccato il  60%  alle elezioni Regionali in Lombardia e Lazio. Ma dietro questo risultato, secondo gli analisti, non c’è soltanto la disillusione per un risultato considerato già scritto. Pesa soprattutto la carenza di offerta e identità politica.

La partecipazione del 40%, in due grandi regioni che includono Roma e Milano,  il non-voto è ormai diventato dominante

Ma qual è l’origine profonda di questo fenomeno?

Alla domanda risponde l’analista politico Luca Ricolfi: “Se vogliamo capirlo dobbiamo metterlo in relazione a fenomeni più generali, anch’essi in atto da tempo. Detto altrimenti, il declino della partecipazione è solo uno dei modi in cui si manifesta un cambiamento culturale molto più ampio, che ha radicalmente trasformato la società italiana dagli anni ’50 a oggi. Volendo andare subito all’osso, la metterei così: è progressivamente sparita la convinzione, profondamente radicata almeno fino agli anni ’70, che il progresso sociale e individuale ha costi elevati. La generazione dei miei genitori considerava ovvio che le aspirazioni di ascesa sociale richiedessero duro lavoro, risparmi, sacrifici, differimento della gratificazione. La mia generazione era perfettamente consapevole che lo studio e l’impegno scolastico fossero prerequisiti necessari per la propria autorealizzazione. Ed entrambe non mettevano in dubbio che il progresso sociale, fatto di migliori condizioni di vita per gli oppressi e conquiste di libertà per tutti, richiedesse la fatica della lotta politica e sindacale, la mobilitazione dei movimenti collettivi, e naturalmente la partecipazione al voto – aggiunge Ricolfi, che su Repubblica ha argomentato il suo studio:

“Ebbene oggi tutto questo è venuto meno. Poco per volta, all’idea che qualsiasi meta comporti sacrifici e impegno, è subentrata l’idea di essere titolari di diritti, che è compito di altri, Stato e istituzioni innanzitutto, rendere esigibili. Questa inclinazione alla delega si manifesta un po’ in tutti gli ambiti. Ai problemi dello sfruttamento – nelle fabbriche come nei campi, negli uffici come nelle consegne a domicilio – non si pensa di rimediare estendendo il raggio dell’azione sindacale, ma imponendo per legge un salario minimo. Ai giovani, che aspirano giustamente a fare un lavoro gratificante e ben retribuito, spesso sfugge che studiare poco, male, e solo per gli esami, abbassa drammaticamente le loro chance di vita, e che il cosiddetto “diritto al successo formativo”, proclamato 25 anni fa dal ceto politico, è un colossale inganno”.

E in mezzo ci sono anche i diritti civili

“Quanto ai diritti civili – aggiunge Ricolfi – “anche lì, dopo i gloriosi anni dei referendum e dell’impegno, subentra l’idea che i nuovi diritti siano, appunto, solo diritti, che tocca alle istituzioni rendere attuali, piuttosto che il risultato di movimenti collettivi, che attraverso l’impegno pubblico affermano nuovi valori, e poco per volta li fanno entrare nel senso comune. Quel che voglio dire, insomma, è che l’astensionismo di massa è solo una delle manifestazioni di un cambiamento più generale della società italiana, che ha alterato radicalmente l’equilibrio fra diritti e doveri, ben chiaro ai padri costituenti. Del resto, che questo cambiamento vi sia stato, risulta persino nell’evoluzione dei principi costituzionali. Nella Costituzione del 1948 l’articolo sul diritto di voto stabilisce che votare “è un dovere civico”. Negli anni ’50 la legislazione ordinaria interviene addirittura per rendere sanzionabile la mancata partecipazione al voto. Ma a partire dal 1993 le cose si muovono in direzione opposta, con la rimozione delle sanzioni e, più recentemente, con la affermazione del principio secondo cui “il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto”, sia pure “significante solo sul piano socio-politico” (Corte Costituzionale, sentenza 173/2005)”.

“Ecco perché, a mio parere – conclude Luca Ricolfi – “sarebbe riduttivo leggere il crollo della partecipazione elettorale come un mero fallimento della politica, con conseguenti immancabili lezioncine a una classe politica ormai incapace di scaldare i cuori. Che la maggior parte dei politici non ci piacciano è sicuramente vero. Ma forse dovremmo chiederci prima di tutto se ci piacciamo noi, con la nostra ingenua credenza che il successo sia un pasto gratis, e che tocchi ad altri garantirci quelle “conquiste” per le quali, un tempo, trovavamo normale impegnarci in prima persona”.

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