Italia fabbrica di laureati “inutili” per le imprese – Un nuovo studio lo conferma

09/03/2019

Sono diversi le analisi che confermano come esista un altissimo disallineamento fra le università scelte dai giovani italiani e le esigenze del mercato del lavoro.

Già Jp Morgan e Bocconi avevano evidenziato questo problema tutto italiano. Ora si aggiunge anche l’ultimo studio realizzato da Anpal e Unioncamere che informa come il 31% delle aziende riscontri «difficoltà di reperimento» per 1,2 milioni di contratti programmati nei primi tre mesi del 2019.

A ciò si aggiunge il fatto che l’Italia ha la più bassa percentuale di laureati in Europa, un dato che però non si traduce in un vantaggio nel mercato del lavoro. Se si considerano i tassi di disoccupazione dei laureati italiani, infatti, comparabili a quelli dei diplomati, i numeri sono preoccupantemente più elevati di quelli di Paesi che hanno una struttura economica simile al nostro. Considerando gli ultimi 15 anni la disoccupazione dei laureati in Germania nella fascia d’età 25-39 varia tra il 2 e il 4%. In Italia tra l’8 e il 13%.

Una situazione preoccupante, così motivata da Massimo Anelli, economista della Bocconi, e spiegata da Il Sole 24 Ore:

“Una situazione legata a un’informazione inadeguata sugli esiti lavorativi e retributivi delle diverse facoltà, che porta a una scelta basata sulle sole preferenze individuali. Anche la Germania registra una percentuale di laureati nettamente più bassa della media europea e inferiore di 10-15 punti percentuali rispetto a quella di Francia e Spagna, ma la composizione per disciplina è completamente diversa da quella italiana. La Germania laurea molti più giovani in informatica, ingegneria ed economia e management, mentre l’Italia doppia la Germania per laureati in scienze sociali e in discipline artistiche e umanistiche”.

Anelli si è spinto oltre per dare nuovi dati alla sua tesi: utilizzando un database unico, sviluppato grazie al programma VisitInps scholars, ha seguito il percorso lavorativo di tutti i laureati di una grande città italiana fino a 25 anni dopo la laurea. Ha inoltre calcolato il ritorno economico della scelta universitaria al netto delle capacità degli studenti e dalla loro condizione socio-economica. risultato? E così emerso che le lauree che rendono di più con valori oscillanti tra il 70 e il 100% di una laurea umanistica sono: economia e management, giurisprudenza, medicina e ingegneria. Facoltà che, per altro, registrano un deficit di laureati più alto rispetto alla Germania, se si esclude medicina.

Ma non è tutto, aggiunge Enrico Marro su Il Sole 24 Ore:
“In Italia esistono contemporaneamente un problema di sotto-qualifica e un problema di sovra-qualifica della forza lavoro, come spiegano bene Francesco Galletti e Francesco Gualdi nello studio di Action Institute “Skills Mismatch in Italia. Analisi e scelte di policy in uno scenario in rapida evoluzione”. Da una parte la carenza di laureati rende l’offerta di lavoro italiana sottoqualificata, ma dall’altra “l’alta percentuale di sovra-qualificati (circa il 20% della forza lavoro) è legata a caratteristiche strutturali del sistema produttivo italiano, con micro-imprese con produzioni a basso valore aggiunto. La particolarmente alta percentuale di sovra-qualificati tra i laureati “Stem” (in discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche), dotati di skills particolarmente ricercate in economie ad alto valore aggiunto, indica precisamente un ritardo strutturale del sistema produttivo del Paese”. La tradizionale concentrazione dell’economia italiana in produzioni a minore valore aggiunto e a basso grado di innovazione, ma anche la dimensione contenuta delle imprese (con oltre il 95% delle aziende italiane che ha meno di dieci dipendenti), sono fattori che possono contribuire a spiegare l’alto numero di sovraqualificati, in modo particolare tra i laureati “Stem”.

Sul quotidiano economico-finanziario si sottolinea inoltre l’importanza della scelta delle scuole superiori:
“Fondamentale è anche il momento della scelta delle superiori. Un’interessante ricerca di Pamela Giustinelli e Nicola Pavoni (“The Evolution of Awareness and Belief Ambiguity in the Process of High School Track Choice”, Review of Economic Dynamics, Volume 25, April 2017) ha studiato il processo di raccolta delle informazioni rilevanti per la scelta della scuola superiore in Italia, attraverso un sondaggio su circa 900 studenti di terza media e sui loro genitori. L’indagine registra, a partire dall’inizio dell’anno scolastico fino al momento della scelta, l’evoluzione della conoscenza delle alternative disponibili da parte di studenti e genitori”.

Emerge che nella scelta decisiva della scuola superiore le famiglie si concentrino su aspetti di breve termine e che riguardano il gradimento dello studente, l’impegno necessario, la qualità dell’istituto, assai meno, e colpevolmente, sugli aspetti di lungo periodo, come le prospettive in termini di mercato del lavoro o accesso all’università.

“In generale – scrive nel suo studio Il Sole 24 Ore “la conoscenza delle scelte possibili da parte di studenti e genitori all’inizio dell’ultimo anno di scuole medie inferiori è piuttosto limitata, e il processo di raccolta delle informazioni tende a concentrarsi su quelle che, già all’inizio, erano le alternative preferite. Tali alternative dipendono molto dal background socio-economico delle famiglie e, in parte, dai risultati ottenuti dallo studente. In particolare, gli studenti nelle condizioni più disagiate sembrano prendere in considerazione pochissime alternative.

Galletti e Gualdi nello studio di Action Institute spiegano che per far fronte a tutti questi problemi, occorre lavorare su entrambi i lati del mercato del lavoro: è necessario sia innalzare la qualità della domanda di lavoro delle imprese, attraverso la promozione di investimenti che facciano crescere il livello tecnologico delle produzioni. Ma bisogna anche adeguare la formazione della forza lavoro in base alle competenze richieste dal mercato.

E soprattutto puntare sull’attrattività e la comprensione di programmi di vocational training, sulla formazione professionale più efficace e su politiche attive del lavoro. Solo così sarà possibile sconfiggere un problema decisamente rilevante per l’Italia e per le ultime generazioni.

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